Sulla scia del lavoro di Bruno Zanardi si è tentato di approfondire l’organizzazione del lavoro nella bottega medievale. A tal fine sono stati paragonati alcuni crocifissi giotteschi, non intendendo per tali opere appartenenti vagamente all’ambiente o alla sfera di Giotto, bensì riconducibili alla sua “bottega”, perché eseguite integralmente o solo in parte dalla “impresa giottesca”. Per cui, opere di Giotto e insieme non di Giotto, in quanto realizzate con tecniche esecutive pressoché simili e perciò riconducibili alla stessa idea generatrice, ma tuttavia caratterizzate da alcune differenze tecniche e non formali. E ciò a riprova non di un’inferiorità stilistica dovuta all’esecuzione da parte di collaboratori, bensì a testimonianza della difficoltà di dissimulare il personale bagaglio tecnico delle molte maestranze presenti in bottega.
Mascheramento ottenuto, secondo un’ipotesi di Zanardi, attraverso l’imposizione agli uomini da parte del Maestro a capo della bottega-impresa, di un personale procedimento tecnico individuabile, nel risultato finale, in alcune costanti operative che inducono a identificare delle precise caratteristiche per ciascuna bottega. Questa “normalizzazione” delle operazioni permetteva di produrre manufatti matericamente e tecnicamente simili, ovvero di uniformare il prodotto artistico finale.
Al fine di supportare la tesi di un’attività di bottega standardizzata, all’interno della quale i procedimenti operativi siano perfettamente definiti da un “capo-maestro”, è stato effettuato un paragone sulle tecniche esecutive dei crocifissi, limitando l’indagine unicamente alla figura del Cristo, partendo dal disegno esecutivo fino alla campitura.
Allo stesso modo sono stati indagati i patroni, per avvalorare l’ipotesi secondo la quale una cospicua parte della produzione artistica medievale, e non solo quella, possa essere stata realizzata “in serie”, secondo una prassi abituale. Tutto questo nell’intento, ovviamente, non di sminuire il livello qualitativo delle opere uscite dalla bottega giottesca, bensì di riconoscere, attraverso una rigorosa analisi tecnica della materia, l’evidenza del processo creativo posto alla base dell’opera d’arte, apportando un valore aggiunto al manufatto, anche nella sua ripetitività.
Partendo dal presupposto che la dicitura “opere appartenenti alla bottega di Giotto”, stia a indicare manufatti realizzati all’interno di un sistema imprenditoriale, si deve allora avvalorare l’ipotesi che il frutto del lavoro di tale bottega doveva necessariamente tendere all’uniformità del risultato finale.
Questa “normalizzazione” del risultato finale poteva essere raggiunta unicamente mediante l’imposizione alle varie maestranze presenti nella bottega-impresa, di un “modo” di fare uguale per tutti e corrispondente a quello personale del capo-bottega, da mettere in pratica seguendo un “ordine” delle fasi lavorative prestabilite in fase progettuale.
In tutte le opere è stato riscontrato un disegno preparatorio molto dettagliato e accurato, riportato sul supporto mediante carbone, successivamente ripreso con un pigmento nero diluito e ombreggiato con l’inchiostro, sfumando il tratto mediante pennelli larghi e piatti. L’ombreggiatura molto scura e netta costituisce la volumetria della figura, mentre la successiva stesura delle tinte è poco contrastata, avvalendosi prevalentemente delle ombre sottostanti. […]
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Indice dell’articolo:
Il “modo” e l'”ordine”
I patroni
Note
di Daphne De Luca
Apparso su Bollettino ICR 16-17 (Gennaio-Dicembre 2008) – pagine 49-68
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