Il dipinto Venere piange la morte di Adone, conservato nei depositi della Pinacoteca Nazionale di Bologna in Palazzo Pepoli-Campogrande (inv. 197) è considerato un’importante testimonianza dell’opera pittorica del fiammingo Michel Desoubleay, meglio noto come Michele Desubleo (Maubeuge, 1602-Parma, 1676). Nonostante i progressi della ricerca dal saggio di Lucia Peruzzi del 1986 e dalla monografia di Alberto Cottino del 2001, sia la cronologia dei dipinti che l’esistenza di un’eventuale bottega di Desubleo restano a tutt’oggi questioni irrisolte. Le fonti archivistiche aiutano solo parzialmente: se è confermato che il pittore raggiunge il fratello uterino Nicolas Régnier a Roma, dove rimane nel 1624-1625, uno iato documentario copre i suoi spostamenti fino al 1654, quando lo si ritrova a Venezia, di nuovo insieme al fratello.
Né Carlo Cesare Malvasia né Pellegrino Orlandi forniscono informazioni riguardo la tecnica pittorica del fiammingo. Al contempo, mentre sulla tecnica di Reni esistono numerosi contributi, quella dei suoi collaboratori è stata indagata solo raramente. Alla luce di queste lacune e vista l’importanza di Desubleo come interprete della pittura emiliana della metà del Seicento, sono state effettuate delle indagini non invasive sul dipinto sopra ricordato, al fine di caratterizzare le stesure e la tavolozza attraverso riprese IR e misure XRF eseguite il 27/03/2017.
Venere piange la morte di Adone faceva parte della collezione dei Marchesi Zambeccari trasferita alla Pinacoteca nel 1871 ed è stata attribuita a Desubleo da Angelo Mazza. L’opera è accettata come autografa e, in assenza di documenti, datata in base a criteri stilistici. Alberto Cottino indica una data prossima al 1650, una ventina d’anni dopo l’ingresso del fiammingo nell’atelier del Reni e durante il periodo d’insegnamento all’Accademia Ghisilieri (1646-1652). Lucia Peruzzi propende invece per una data più precoce, sulla base di reminiscenze manieristiche che rimanderebbero alla formazione del fiammingo presso l’atelier di Abraham Janssen ad Anversa. Come si vedrà più avanti, una datazione intorno agli anni Trenta troverebbe un effettivo riscontro nel confronto con opere coeve di Régnier. Inoltre, una collocazione nella prima maniera di Desubleo sarebbe supportata da un richiamo alle eroine reniane, con il caratteristico sguardo rivolto verso il cielo, nonché ai modelli di teatralità guercinesca sicuramente assimilati dal fiammingo durante il suo periodo bolognese.
La collocazione originaria del dipinto non è nota. Ciononostante, visto il soggetto mitologico, è verosimile che fosse esposto in una galleria o in uno spazio di rappresentanza. Come spesso accadeva, la composizione venne aggiustata in corso d’opera per adattarsi alla collocazione definitiva. Ne testimoniano i due pentimenti di entità molto lieve, che si riferiscono ad aggiustamenti nella parte bassa della composizione effettuati in relazione al punto di vista che avrebbe dovuto avere l’opera una volta terminata. Così, la parte del palmo tra l’indice e il pollice della mano destra di Adone è stata abbassata, per non dare la sensazione di una posizione troppo costretta, non giustificata dall’abbandono di un corpo esangue, e, allo stesso tempo, evitare una visione dal sottinsù, inammissibile per un particolare così in basso, quando invece la visione suggerita per tutta la composizione è frontale. Altro e più vistoso pentimento concerne la posizione del corno, inizialmente dipinto per intero leggermente più in alto e altrettanto più a sinistra. Come si è accennato, anche in questo caso sembrerebbe trattarsi di un pentimento legato a questioni di visibilità; più in alto lo strumento avrebbe dato la sensazione quasi che fluttuasse e, allo stesso tempo, non avrebbe consentito di rendere riconoscibili (ma forse è il caso di dire intuibili) le macchie di sangue sul terreno.
Relativamente al disegno preparatorio, nelle riprese IR si apprezzano tracce di ausilio alla costruzione solo in corrispondenza di alcuni dettagli: si tratta sempre di linee estremamente sottili e precise e, proprio a causa di tali caratteristiche, non è sempre agevole riconoscere il medium con cui sono state tracciate. A volte sembrerebbe trattarsi di un medium secco particolarmente appuntito che ha lasciato una traccia di spessore minimo, come ad esempio in corrispondenza dell’arcata sopracciliare e dello zigomo sinistro di Adone; altre volte, ad esempio nel contorno del lembo del manto accostato al seno di Venere la stessa traccia sembrerebbe far pensare all’incisione di una sottilissima punta, ipotesi che comunque l’assenza di interferenze col cretto rende meno convincente.
L’assenza di un disegno preparatorio propriamente detto sembrerebbe avvicinare la tecnica di Desubleo sia a quella del Guercino che a quella del Reni. A tal proposito, è utile rimandare alla fama del centese, noto per «la formidabile velocità nell’operare […] bozzando e finendo nello stesso tempo», che a quella del Reni, altrettanto conosciuto per la rapidità di licenziamento delle opere. La questione della tecnica d’esecuzione di Desubleo va però affrontata con la consapevolezza che non si hanno notizie certe sui disegni preparatori. Dal testamento si evince che un corpus di disegni e stampe viene lasciato in eredità al nipote Gaspare della Vecchia, dei cui successivi passaggi però non si hanno tracce. Non è quindi noto se si trattasse di disegni di sua mano, eventualmente utilizzati per i dipinti, oppure se fosse invece una piccola collezione di grafica assemblata dal fiammingo nel corso della sua vita. Quel che è certo è che al momento non sono noti studi direttamente riconducibili alla tela bolognese in questione.
Prima di procedere all’analisi dei modelli compositivi, è utile soffermarsi sulle fasi pittoriche e i materiali adottati da Desubleo in quest’opera. Sopra un sottilissimo strato di gesso è stata stesa un’imprimitura a olio di colore bruno essenzialmente costituita da pigmenti a base di terre e/o ocra e piccoli quantitativi di biacca. I bianchi sono stati ottenuti con la biacca si sottolinea inoltre che alle campiture di tonalità più pure, come ad esempio quella della cornea dell’occhio di Venere, non sono state effettuate aggiunte di piccole quantità di pigmenti azzurri per intensificare l’effetto di bianco, come invece spesso avviene in pittura, soprattutto quando sono ricercate tonalità fredde di bianco. Al contrario, nelle campiture scure, come ad esempio le ombre nere del manto rosso di Adone, la tonalità del colore è stata raffreddata mediante l’aggiunta di pigmenti a base di rame, assenti nel rosso di base dello stesso manto.
Tutti gli azzurri e buona parte dei grigi contengono azzurro di smalto, pigmento costituito da un vetro potassico colorato con minerali di cobalto che nella tecnica ad olio tende col tempo a perdere colore. L’uso di questo pigmento nei grigi non stupisce in quanto, oltre a perdere facilmente il colore, già in partenza non forniva un azzurro di tonalità satura; in ogni caso, stupisce la sua presenza massiccia nel grigio della veste di Venere dove. mescolato alla biacca e ai pigmenti a base di ferro (terre e/o ocra) doveva concorrere a definire un colore tendente al tortora, che oggi non si apprezza più così bene. Allo stato attuale il grigio di questa veste non è poi così dissimile da quello della veste di Adone, dove l’azzurro di smalto è stato sostituito con pigmenti a base di rame, verosimilmente dei verdi, perché se fossero stati anch’essi azzurri non ci sarebbe stato bisogno di tale sostituzione. Tutto ciò sembrerebbe pertanto attestare un’originaria ed eloquente giustapposizione di due grigi differentemente intonati: tendente al tortora, in segno di lutto, quello della dea, con una leggera dominante verdastra, intonazione associata ai cadaveri o a un fiore avvizzito o un frutto quasi marcio, quello del giovane cacciatore morto.
Lo smalto non è il solo pigmento azzurro utilizzato su questa tela: nella cinghia dell’allacciatura del manto e nella cintura della dea sopra una prima stesura di smalto ne è stata applicata una seconda con pigmenti a base di rame, verosimilmente azzurrite, per intensificarne il colore.
Piccoli quantitativi di pigmenti a base di rame sono stati infine evidenziati anche nelle campiture originali del cielo.
I verdi del fogliame sono stati ottenuti con pigmenti a base di rame, verosimilmente scuritisi nel corso del tempo, effetto tipico di questi pigmenti. Ovviamente, le foglie sono state dipinte sulla stesura di base del cielo; meno ovvio è il fatto che anche il tronco al centro della composizione sia stato dipinto sulla stesura di base del cielo, nonostante le sue dimensioni tutt’altro che trascurabili, a testimonianza di una maniera di costruire per aggiunte la composizione in queste parti accessorie.
I gialli sono stati ottenuti con un uso combinato di pigmenti a base di ferro (terre od ocra) e di giallo di piombo stagno e antimonio per le tonalità più chiare, soprattutto nei riflessi di gioielli e ricami Quest’ultimo pigmento è stato riconosciuto solo in epoca abbastanza recente e allo stato attuale delle ricerche è stato identificato soprattutto su opere realizzate a Roma durante il XVII secolo, al punto che è stato proposto di denominarlo ‘giallo romano’. La circostanza che, allo stato attuale delle conoscenze, non ne sia stato sinora segnalato l’impiego su dipinti bolognesi potrebbe essere dovuta soprattutto alla scarsa statistica raccolta al riguardo e, pertanto, non costituire un indicatore dell’esecuzione della tela in esame a Roma. In alcuni casi la tonalità di giallo è stata riscaldata con l’aggiunta di piccoli quantitativi di cinabro, ad esempio nel manto di Venere, sia nelle parti più chiare che in quelle più scure. Analogamente, per ottenere tonalità più fredde di giallo, nei calzari di Adone a ocra e terre sono stati aggiunti pigmenti a base di rame.
I bruni sono stati realizzati con pigmenti a base di ferro; come già segnalato per i gialli, anche nei bruni è frequente l’aggiunta di piccoli quantitativi di cinabro per riscaldare la tonalità del colore; a questo proposito fanno eccezione i bruni relativi al cocchio e agli elementi paesaggistici come il tronco o il terreno. Meno frequenti, sono invece le aggiunte di pigmenti a base di rame nei bruni, individuate nel marrone del tronco, in quello del terreno, soprattutto nella zona in ombra in primissimo piano.
Il rosso del manto di Adone è stato realizzato con cinabro, in maniera combinata coi pigmenti a base di ferro per le parti più scure. Nel manto di Venere sono state effettuate aggiunte minime di cinabro all’impasto a base di lacca e biacca. Gli incarnati sono stati ottenuti con biacca, cinabro e pigmenti a base di ferro. Ovviamente, nella figura di Adone, essendo esangue, il cinabro non è presente, nemmeno sulle labbra o sulla gota mentre nelle parti in ombra della stessa figura, la tonalità del colore è stata raffreddata con aggiunte minime di pigmenti a base di rame, verosimilmente dei verdi.
In mancanza di disegni utili all’individuazione del modello iconografico a cui Desubleo fa riferimento, è dal confronto con due fonti seicentesche che emergono piste interessanti: il ‘libro da disegnare’ del pittore bolognese Odoardo Fialetti Il vero modo et ordine per dissegnar tutte le parti et membra del corpo humano e soprattutto alcuni dipinti di Régnier. Vista la grande diffusione del compendio di Fialetti, pubblicato nel 1608 a Venezia, è probabile che Desubleo se ne sia servito per l’impostazione di alcune parti anatomiche di Adone, ad esempio per i piedi. In tal caso, la differenza tra il possente carico muscolare dei piedi dei modelli fialettiani e le forme più classicheggianti di quelli di Adone suggeriscono come Desubleo abbia aggiornato i modelli – all’epoca del dipinto già ‘vecchi’ di oltre vent’anni – sulla base del gusto bolognese intorno al 1630.
Uno sguardo ad alcuni dipinti di Régnier rivela analogie più immediate. (continua…)
(L’articolo integrale è contenuto nel numero 33 del Bollettino ICR)
Autori:
Diego Cauzzi, Chimico, Polo museale per l’Emilia Romagna (Italy)
Stefania Girometti, Storica dell’arte, dottoranda dell’Università di Heidelberg (Germany)/École du Louvre (France)
Claudio Seccaroni, Ingegnere chimico, ENEA (Italy)
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