Il tema della protezione dei resti di antiche costruzioni, emerse in seguito a un lavoro di scavo, richiede un approccio che dev’essere in primo luogo archeologico ma, parallelamente, ‘tecnico’ (fisico-chimico ed ingegneristico, si potrebbe dire: riguardante dapprima le esigenze conservative, durante e dopo lo scavo, e di conseguenza le strutture di copertura o confinamento, i loro materiali e la concezione statico-costruttiva, il profilo di controllo ambientale e del microclima, infine le dotazioni impiantistiche, relative specialmente allo smaltimento delle acque, all’illuminazione ed alla sicurezza) e, subito dopo, architettonico (concernente il rapporto con l’ambiente e il paesaggio, il contesto urbano, i criteri e le modalità progettuali e ideative, le esigenze di chiara ed efficace presentazione, fruizione, accessibilità).
Di fronte ad ogni nuovo caso si pone, dunque, la necessità di riconsiderare l’intera questione e le relazioni fra i problemi d’interpretazione storico-filologica, quelli tecnico-conservativi e le specifiche risposte di progetto, con riferimento a possibili soluzioni difficilmente inquadrabili a priori ma più spesso molto diverse fra loro, quanto a metodi e risultati conseguiti. Ciò in ragione delle caratteristiche peculiari di ogni monumento e di ogni sito.
Ne emerge un quadro nel quale si distingue subito il valore di alcune realizzazioni eccellenti dovute, non a caso, ad architetti di qualità, come Jean Nouvel se si pensa alla domus gallo-romana di Vesunna a Périgueux, in Francia (fig. 1), o Peter Zumthor, se si considerano le costruzioni romane di Welschdörfli, l’antica Coira, in Svizzera (fig. 2). In questi casi si può notare l’assoluto rispetto nei confronti degli antichi resti archeologici nonché la rilevanza ed evidenza visiva e comunicativa loro riservate; si potrebbe, forse, meglio dire la perfetta consonanza di antico e nuovo, dove l’uno esalta il valore e la ricchezza dell’altro, in un dialogo che produce, già a prima vista, un’immagine nitida, spesso affascinante e progressivamente autoesplicativa, fino a divenire pienamente didascalica, pur mantenendo tutta la sua vivacità e pregnanza documentaria ed estetica.
Sia contro la banalità della ricostruzione troppo spinta e condotta, certe volte, fino alla replica pedissequa, anche di dettaglio, secondo la logica consolatoria del ‘com’era e dov’era’, fondata su un equivoco storico e sulla presunzione di poter comprendere e quindi replicare ‘tutto’ il passato (mentre, in effetti, si finisce col replicare soltanto ciò che si è capito, estinguendo o riducendo drasticamente le possibilità d’interrogazione continua e sempre nuova del manufatto) sia contro la durezza invasiva di certi interventi troppo ingegneristici (come nel caso della villa romana di Castro dei Volsci – fig. 3), per cui le coperture, alla fine, si presentano simili a quelle d’un capannone industriale o fieristico, vanno considerati i numerosi esempi d’ottime soluzioni architettonico-archeologiche nelle quali un buon progetto ‘moderno’, ma ‘sensibile alla storia’, propone un risultato che mette in equilibrio le esigenze conservative e quelle di godimento e frequentazione degli antichi resti, grazie ad un costruito che dialoga rispettosamente con questi ultimi ma anche col paesaggio circostante. È il caso, per esempio, della sistemazione d’una serie di tombe a camera in Umbria nel comune di Montecchio (Terni), in località Vallone di San Lorenzo (fig. 4), o dell’area archeologica della città di Fregellae.
Altre volte, come nel caso menzionato della domus di Vesunna, ma anche della bella sistemazione della domus dell’Ortaglia a Brescia (architetti Giovanni Tortelli e Roberto Frassoni), la singolarità e la centralità del ritrovamento hanno orientato gli autori a non avvalersi del tema progettuale della serialità e della ripetitività ritmica, come a Montecchio ma, al contrario, a progettare una copertura unificante ed estensiva, ormai prettamente museale, in assonanza non formale ma più sostanzialmente di contenuto con gli antichi, pregevoli resti. Dei medesimi architetti è anche la copertura della cosiddetta Südhalle, adiacente all’antico battistero, nel complesso patriarcale di Aquileia; un esempio di perfetta integrazione fra archeologia, conservazione e restauro, museografia ed architettura, quanto mai attenta al sito ed ai valori del paesaggio1 (figg. 5, 6).
A Périgueux, la menzionata domus gallo-romana dispone oggi di un museo-copertura, realizzato nel corso di dieci anni, dal 1993 al 2003. Un prisma di cristallo avente 50 metri di lato con un tetto sporgente a sbalzo di 9,50 metri. Più che d’una ‘vera costruzione’ si tratta ‘di una cristallizzazione intorno ad un sito’; di un ‘dispositivo sterilizzatore’ che, contro ogni romanticismo della rovina, rende visibili, nitidi e comprensibili nella loro geometria i resti della villa. Sull’intradosso della copertura piana è, infatti, tracciato l’apparato planimetrico semplificato della villa stessa. Tramite le ampie vetrate il percorso si prolunga verso l’esterno, senza interruzioni, fondendosi col parco archeologico circostante (fig. 7).
Merita d’essere anche ricordata per la sua qualità, pur se il tema delle coperture vi appare in modo marginale, la sistemazione del parco del teatro e dell’anfiteatro romani a Cividate Camuno (Brescia: architetti Stefania Guiducci e Marzio Mercandelli), esempio di progettazione multidisciplinare che si estende dal restauro al trattamento del verde, dal consolidamento del terreno all’illuminazione artificiale. Ciò per la grande attenzione riservata al controllo del linguaggio prescelto, decisamente moderno, alla sua flessibilità, ai materiali ed ai colori, alla sapiente selezione dei materiali. Poi per la creazione di nuovi percorsi (che sono al tempo stesso agevoli passeggiate ma anche lunghe rampe per disabili) e di punti panoramici, per la visione dall’alto dei ruderi che emergono poco dal terreno; infine per l’eloquente espressività delle nuove pavimentazioni, differenziate ad indicare esterni, interni, luoghi di sosta e di percorrenza.
Tornando al tema specifico delle coperture, un recente positivo esempio è costituito dalla proposta, sviluppata dall’architetto Riccardo D’Aquino e dai suoi collaboratori per l’Istituto Svedese di Studi Classici, di protezione e sistemazione generale dell’area archeologica monumentale etrusca di Acquarossa, in provincia di Viterbo (figg. 8-10). La soluzione elaborata, che si è affermata come la migliore in un rigoroso concorso ad inviti, da un lato propone la revisione d’alcuni vecchi restauri murari, un sistema di ordinato smaltimento delle acque, un’efficace organizzazione delle pavimentazioni, dall’altro studia un tipo di copertura che, pur prendendo spunto da esempi come la sistemazione del Tempio di Apollo a Veio, realizzata dall’architetto Franco Ceschi, o come alcuni lavori di Franco Minissi, si pone in termini di grande e risolutiva originalità, apprezzata dalla stessa Soprintendenza allora per l’Archeologia del Lazio e dell’Etruria meridionale. Essa riesce infatti, nello stesso tempo, a proteggere e conservare, presentare, comunicare il bene, stimolando, per il suo carattere anche di ‘anastilosi indiretta’, l’interrogazione e l’approfondimento del manufatto da parte del visitatore, auspicabilmente fino a indurlo ad una specifica visita nella sezione del Museo Nazionale Etrusco di Viterbo che ne conserva i superstiti frammenti architettonici fittili. Il tutto mantenendo intatta la poesia del luogo e l’importante carattere di ‘esternità’ dei resti scavati, vale a dire di vitale relazione con il contesto e il paesaggio circostante2. Suggestione ripresa recentemente per la sistemazione e presentazione (realizzata dal giovane artista Edoardo Tresoldi, sotto la guida convinta e coraggiosa della Soprintendenza di Bari, allora competente) degli scavi della basilica paleocristiana di Siponto (Foggia), adiacente alla chiesa romanica di S. Maria (fig. 11). Del tutto diverso, come sensibilità nei confronti del sito e capacità di creare un dialogo con le preesistenze archeologiche, il caso dei resti delle terme romane, risalenti alla prima metà del IV sec., conservati a Treviri nella piazza del Mercato Centrale. Non si tratta tanto della differente situazione paesaggistica, nel primo caso sostanzialmente campestre e qui pienamente urbana, quanto di attenzione nella risposta progettuale, nonostante a Treviri abbia lavorato (1988-96) un famoso architetto, Oswald Mathias Ungers (fig. 12).
Fra i migliori esempi in materia si contano spesso lavori d’architetti piuttosto giovani e prodotti da studi professionali relativamente piccoli perché, di fatto, le risposte più convincenti non provengono da un lavoro di routine ma da un avvicinamento sperimentale e generoso che richiede grande dedizione, approccio ‘artigianale’, impegno personale e non delegabile nei confronti di un’operatività molto ragionata, faticosa e piena di responsabilità. Si tratta dunque, sotto diversi aspetti, di casi eccezionali, legati ad attitudini, cultura e sensibilità non ancora adeguatamente diffuse ma sovente già presenti in molti giovani professionisti (specialmente in quelli che abbiano coltivato studi di specializzazione post lauream in restauro dei monumenti o che operino in termini di ricerca e didattica presso le relative scuole) nonostante un sistema economico-amministrativo e concorsuale che, in Italia, tende a scoraggiare una sana competizione ed un serio confronto d’idee e capacità favorendo al contrario, per principio, chi sia già solidamente affermato in termini professionali e, quindi, di fatturato.
Alle indiscutibili debolezze di formazione di molti architetti, soprattutto di quelli non avvezzi a confrontarsi con l’antico in termini di rispetto e rigore metodologico, si aggiunge la chiusura di molti archeologhi e la loro storica diffidenza nei confronti degli architetti stessi e sovente della moderna architettura. Invece il rapporto fra antichi ruderi e modernità rappresenta un autentico problema interdisciplinare, archeologico, architettonico, urbano, gestionale ma anche di restauro, nel suo pieno senso di conservazione, reintegrazione e presentazione; problema rispondente alla volontà di ridare un significato a ciò che si presenta come frammentato, incompiuto, illeggibile, privo di senso ma meritevole, comunque, di essere ‘rivelato’, fruito e ‘tramandato al futuro’. In effetti l’integrazione di antico e nuovo si pone, nelle sue complesse valenze, in modo non sostanzialmente diverso da un restauro d’impianto necessariamente ‘critico’ o ‘critico-creativo’3, non certo d’imitazione stilistica retrospettiva e neppure di ‘sola’ conservazione, falsificante l’una, insufficiente l’altra. Né, ovviamente, di architettura gestuale ed autoreferenziale.
Da qui, in certi casi, l’importanza del recupero della terza dimensione, in elevato, per lasciar percepire e comprendere i ruderi, spesso emergenti di poche decine di centimetri dal terreno, anche a costo di qualche forzatura ricostruttiva o di meditate anastilosi4; oppure, in alternativa, della predisposizione di percorsi di visita dall’alto (come fece, mezzo secolo fa, Franco Minissi sistemando l’area archeologica della villa del Casale presso Piazza Armerina) che consentano di leggere nel suo insieme quanto resta, magari delineato solo in pianta o poco più (fig. 13). Tutto ciò suscita anche il problema della relazione di tale dimensione in elevato con le presenze circostanti, di solito incombenti nel caso di archeologia in ambito urbano.
In tale prospettiva risulta fondamentale il ruolo di chi ‘progetta’ il restauro, poiché questa disciplina, pur basandosi in primo luogo sulla conoscenza storico-critica dei manufatti di cui s’interessa, non è operazione puramente storiografica, ma concreta azione fisica sull’oggetto. Per conservare, in altre parole, bisogna modificare, ma in un senso controllato e rispondente al fine; contemperare le esigenze critiche con quelle fisico-chimiche, tecnologiche e strutturali; coordinare i diversi apporti e prevedere il risultato di tutto quanto si fa, anche in termini di qualità estetica e nitidezza del risultato complessivo. Ciò non discende da una semplice sommatoria di competenze ma dalla loro integrazione, sia in fase progettuale sia di cantiere; ne consegue che deve trovarsi e ricercarsi nell’architetto il referente di base, pur se nient’affatto unico e solitario.
I problemi che si riscontrano più di frequente sono quelli comuni ad ogni restauro, riassumibili, riferendosi alla terminologia brandiana5, al conflitto dialettico fra «istanza della storicità» e «istanza estetica», fra conservazione e innovazione, con le relative questioni dei limiti di ‘rimozione’ delle stratificazioni storiche, del carattere delle ‘reintegrazioni’ delle lacune, del rispetto delle ‘patine’ e dei segni del tempo, oltre a problemi più strettamente tecnici (scelta dei procedimenti e dei materiali di pulitura, consolidamento, protezione ecc.).
In questo ambito l’incontro dell’architetto con l’archeologo dovrebbe essere, almeno idealmente, di piena collaborazione e fruttuoso scambio di competenze; in termini reali la cosa è molto più problematica e non manca, come detto, di una sua intrinseca conflittualità.
In effetti sia il termine ‘architetto’ che il termine ‘archeologo’ oggi coprono una pluralità di professioni e di culture assai diverse al loro interno e, certamente, non ogni architetto ha la sensibilità, l’interesse e la preparazione per dialogare con l’archeologo, con lo storico e con i restauratori delle opere d’arte6. Per sua natura l’architetto è un ‘modificatore’, non un ‘conservatore’. Di fronte alle preesistenze edilizie spesso ne vagheggia la demolizione e la ricostruzione in forma migliore e più rispondente al gusto e alle necessità contemporanee. Sente l’impulso, infine, a lasciare il ‘segno’ del proprio intervento.
Tutto ciò è perfettamente naturale, comprensibile e, sotto certi aspetti, giusto quando solo si pensi alla precedente affermazione secondo cui conservare è modificare. Il problema è di riuscire ad orientare dialetticamente questo atteggiamento nei limiti e nella direzione meglio rispondenti alla doverosa tutela di manufatti, archeologici o no, comunque riconosciuti come ‘beni culturali’ e non quali mere ‘preesistenze’.
Per chiarire e completare quanto detto sopra, è opportuno precisare alcuni enunciati teorici e qualche ulteriore motivo di dubbio. Una progettazione ‘per le’ preesistenze (e non semplicemente ‘sulle’ preesistenze) davvero cosciente dell’importanza e dell’unicità dei beni coinvolti, non dovrà trascurare alcuni fondamentali criteri, da tempo acquisiti al campo della tutela e del restauro del patrimonio culturale:
1) che i problemi funzionali e gli altri problemi pratici, pur importanti, sono ‘mezzo’ e non ‘fine’ dell’intervento; fine che s’identifica con la trasmissione al futuro, nelle migliori condizioni possibili, di un’eredità «materiale avente valore di civiltà» (Commissione Franceschini, titolo I, dichiarazione 1a);
2) che criterio guida sia sempre il ‘minimo intervento’, e che tutto quanto si fa o si propone trovi prima giustificazioni culturali/conservative e, solo in via subordinata, d’altro genere. L’inventiva degli architetti sia quindi messa a frutto per ‘massimizzare’ l’efficacia e ‘minimizzare’ il peso di ogni intervento, perseguendone la qualità e non la quantità, come invece troppo spesso accade;
3) che si riservi, in linea di principio e fatte salve le indispensabili scelte critico-valutative, la medesima cura tanto alle testimonianze più nobili e grandiose, quanto a quelle minori e più povere, ricadendo tutte, quali ‘monumenti’ (per la loro stessa antichità e per il valore di memoria) nell’insieme dei beni culturali;
4) che il restauro, trattando di testimonianze storiche, artistiche e di cultura materiale ‘autentiche’, si apparenta, per criteri e metodi, alla filologia e all’edizione critica dei testi; che quindi sia da bandire ogni facile tentazione di ripristino, che confonderebbe soltanto − ad esclusione, forse, di pochi eletti conoscitori − le carte della storia e che userebbe in maniera surrettizia la filologia, facendole restituire ‘certezze’ (in base alle quali ricostruire e completare) che per definizione non possono essere tali ma, al più, buone ‘ipotesi critiche’7;
5) che per tale carattere d’ipoteticità, quindi, le indispensabili aggiunte mostrino sempre d’essere moderne, in certi casi anche con una loro efficace attualità espressiva, sicché il nuovo e il vecchio siano realmente tali e non contraffatti. Non c’è nulla di più penoso che vedere, ad esempio, un antico muro intonacato ridipinto − spesso inutilmente − a nuovo e poi ‘antichizzato’, nel tentativo di recuperare quella patina appena prima sacrificata.
(di Giovanni Carbonara. Articolo integrale sul numero 33 del Bollettino ICR – Nardini Editore)
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