La vernice finale di un dipinto è uno strato che viene applicato con una duplice finalità: una, più prettamente estetica, per saturare il tono dei colori nel sottostante strato pittorico; l’altra, con una connotazione più propriamente strutturale, per interporsi come strato protettivo tra lo strato pittorico e l’ambiente esterno nel quale l’opera si trova. Molto più complesso, invece, definire univocamente una patina per i dipinti. Rispetto ad altri manufatti è difficile individuare e caratterizzare uno strato da poter definire “patina”, così difficile che ad un certo punto ci si domanda se davvero questa “patina” abbia una sua consistenza chimico-fisica, o non sia piuttosto un mero concetto estetico. Abbiamo a che fare con uno strato che, nel migliore dei casi, possiamo definire “effimero”.
La ragione principale di questa difficile caratterizzazione è nella natura stessa dei materiali costitutivi e nelle caratteristiche del manufatto, precisamente:
– lo spessore, veramente infinitesimo, di questi potenziali strati, superficiali o all’interfaccia, ne complica enormemente l’individuazione, la precisa localizzazione e la caratterizzazione;
– il carattere organico dei materiali che verosimilmente costituirebbero queste patine, rispetto alle controparti inorganiche (ossidi, sali) che ritroviamo principalmente su supporti e manufatti inorganici o minerali, quali appunto metalli e materiale lapideo, rende enormemente più complessa l’analisi mirata ad identificare i composti presenti. Molti condizionali sono dunque d’obbligo, affrontando un tema così particolare. Nel seguito di questo testo si cercherà di mettere in evidenza come ci possano essere varie genesi per la patina di un dipinto, rivisitando i risultati analitici ottenuti da vari ricercatori e ripercorrendo i percorsi mentali di coloro che si sono sforzati di proporre interpretazioni dei meccanismi di degrado dei materiali.
Le patine dei manufatti organici Verosimilmente, uno o più dei meccanismi elencati di seguito possono concorrere alla formazione di una patina su un dipinto.
– Materiali completamente estranei all’opera, provenienti dall’ambiente e semplicemente depositatisi sulla superficie. La loro “sorte” dipende poi dall’intrinseca inerzia chimica: possono mantenersi sostanzialmente inalterati, magari semplicemente coesi da altri materiali cementanti, come inquinanti atmosferici a carattere idrofobo (ad esempio idrocarburi), oppure passare all’interno dell’eventuale strato di vernice: uno strato resinoso tende infatti a mantenere un certo carattere plastico, e lentamente è in grado di “fluire” intorno al granello di materiale depositatosi, inglobandolo al proprio interno. Questi materiali superficiali possono anche trasformarsi interagendo con altri materiali già presenti: in particolare ossidi, sali e sostanze con carattere alcalino, provenienti dalla disgregazione di minerali, possono salificare componenti acidi delle vernici formando composti a minore solubilità.
– Materiali costitutivi migrati come tali dagli strati interni verso la superficie e lì trasformatisi chimicamente per interazione con altri materiali. Oppure, materiali derivanti dalla trasformazione chimica di materiali originari, e successivamente migrati verso la superficie. Possibili meccanismi di questi tipo sono stati chiariti da ricercatori, ad esempio Wolbers,1 i quali hanno cercato di approfondire la conoscenza del materiale che genericamente chiamiamo “il deposito superficiale”. Ad esempio, nello strato pittorico di un dipinto con legante oleoso o all’uovo sono presenti componenti lipidici come gli acidi grassi, che descriveremo meglio più oltre, dotati di una certa mobilità e quindi capaci, nell’arco di tempo di decenni o addirittura di secoli di invecchiamento, di migrare verso la superficie. Similmente, componenti inorganici a bassa solubilità, localizzati negli strati più interni, come il calcio solfato o gesso nello stra to preparatorio, possono lentamente migrare verso la superficie: l’occasionale dissociazione di queste molecole, con il concorso dell’umidità e della condensa, mette in movimento ioni calcio, Ca++, che possono arrivare sulla superficie dell’opera attraverso crettature, lacune, ecc.. Qui i due componenti, gli acidi grassi dallo strato pittorico e gli ioni calcio da quello preparatorio, possono ri-combinarsi chimicamente dando origine alla formazione di sali grassi di calcio, a bassa solubilità. Queste patine possono apparire come velature biancastre sulla superficie del dipinto, sovente genericamente interpretate, con terminologia poco appropriata, come “ossidazioni”. È evidente che gli ioni calcio possono provenire altrettanto facilmente da composti provenienti dall’ambiente, ad esempio gesso di deposizione secca; una combinazione di questi meccanismi è dunque possibile, con alcuni componenti endogeni, provenienti dagli strati stessi dell’opera, ed altri estranei all’opera, provenienti dall’ambiente circostante.
– Materiali deliberatamente applicati all’opera per uno scopo strutturale (come consolidanti, per ridare coesione agli strati), o più propriamente estetico (per ri-saturare il colore, per tentare di migliorare la trasparenza, la leggibilità, patinature per ravvivare, intonare o velare l’immagine) e che, come effetto voluto o come effetto collaterale imprevisto, hanno dato luogo successivamente alla formazione di una patina superficiale.
Considerando la struttura a strati di un dipinto, possiamo pensare a due possibili localizzazioni di queste patine: sulla superficie dello strato di vernice (considerando con questo termine lo strato protettivo più esterno), oppure all’interfaccia di strati diversi, ad esempio lo strato pittorico ed il sovrastante strato di vernice.
Per approfondire: